2015-09-06
No. 4
In difesa del medley linguistico
Sarà la mia
abitudine a ‘vivere internazionalmente’, a lavorare circondata da voci con
accenti diversi, da persone che al fine di ‘farsi intendere’ mescolano termini
e suoni (a volte con eccessiva disinvoltura), ma la Babele linguistica non mi infastidisce
né spaventa, anzi mi attrae, stimola la mia curiosità, suggerendo connessioni e
rimandi, tra storia di prestiti linguistici, ricerca di ètimi e scoperta di neologismi.
Please drink responsibly
Scrivo e parlo
come penso, in lingue diverse, senza sentirmi ‘dominata’ – più o meno
subliminalmente – da ‘culture altre’.
Il risultato è un cocktail dal
gusto insolito, una musica sperimentale dalle sonorità nuove e con tonalità complementari,
di cui certo non abusare (il troppo, si sa, stroppia), ma da neppure rifiutare
a priori.
La nota dominante
Non credo si
sminuisca la propria ‘lingua madre’ quando si utilizzano altre lingue all’interno
di un testo (orale o scritto), sentendole proprie/appropriate e incastrandole
tra loro come pietre preziose di colori e dimensioni diverse su una spilla, a
comporre un disegno comunque ‘unico’. Onde di un’eco interna, si rincorrono e sovrappongono
nella mente e si rispecchiano nel testo, senz’altra priorità che quella del
suono e del senso, come note su uno spartito.
Vivo il discorso
linguistico allo stesso modo del discorso musicale, e così come all’interno di
uno ‘standard’ inserisco variazioni per personalizzarlo e renderlo comunque
‘diverso’, talvolta in un testo inserisco brani o frasi o ‘citazioni’ anche in
altre lingue per riprodurre il ritmo e la melodia che mi suona dentro: toni e
umori si mescolano e spesso il colore che ne esce è più vivido e abbagliante (o
più sfumato) rispetto a quello che otterrei utilizzando una sola lingua.
È una questione
di musicalità della forma e di forza espressiva del contenuto.
Preferisco la
creazione di una melodia originale a regole codificate perché la sento più mia:
ora variando il ‘tema’ seguendo uno schema di accordi (come ad es. nella
struttura di Un uomo semplice), ora focalizzandomi
sull’armonia o un singolo accordo (come ad es. in alcuni ‘brani poetici’
all’interno di Un uomo semplice e di Svaniti i ricordi, restano le emozioni),
ora rompendo ogni struttura melodica/armonica con un ritmo più
‘free’.
‘Congiuntivo’, chi è costui ?
Ben diverso è
l’uso improprio di una lingua, quando, ad esempio, si utilizzano termini magari
altisonanti ma fuori contesto, o si dimenticano/storpiano le concordanze dei
tempi verbali, o si arriva a proporre l’abolizione della ‘virgola’ e del ‘punto
e virgola’ (magari sostituendoli con un bel ‘punto esclamativo’ che fa tanto
‘cool’). Quello sì che è un danno alla bellezza e alla peculiare musicalità
della propria lingua di ‘appartenenza’, quello sì che la ‘impoverisce e
barbarizza’.
Nei secoli le
lingue si sono imprestate a vicenda termini ed espressioni (a volte mantenendo la
stessa grafia). Perché usare un termine greco o latino dovrebbe essere più
accettabile di un termine inglese o tedesco se in quel testo/contesto facilita
il senso e/o contribuisce a creare una certa, voluta, intonazione ?
Vero, a volte si
esagera, a volte si utilizzano termini ‘forestieri’ senza una vera necessità,
finendo con l’apparire presuntuosi o semplicemente stupidi. Al di là dell’uso
specialistico o a fini fonici/sinestetici, se esiste un termine nella propria
lingua altrettanto chiaro, e non del tutto obsoleto, perché utilizzare un
termine straniero nel lessico comune o, peggio ancora, italianizzarlo storpiandolo (ad es. 'printare' in luogo di 'stampare') ?
Ah,
come mi piacerebbe allungare un dizionario, o una grammatica di scuola
primaria, a un giornalista di una nota radio, tanto presuntuoso e saccente
quanto ignorante (del resto ignoranza e presunzione vanno spesso a braccetto),
che punta il dito sugli errori degli altri e pare non notare i propri
strafalcioni, che critica l’abuso dell’inglese nella comunicazione quotidiana
per poi infarcire i suoi sproloqui di termini anglosassoni, utilizzandoli
davvero inutilmente, se non addirittura fuori contesto, e con una pronuncia
improbabile.
La lingua è identità, è appartenenza…
La lingua è il
collante della cultura di un popolo, e lo sanno bene quelle etnìe che per secoli
hanno continuato (a volte di nascosto) a usare/tramandarsi la propria lingua parallelamente a
quella ‘ufficiale’ dei loro ‘dominatori’ o che se la si sono vista strappare/proibire come a cancellare il diritto a esistere (anche attraverso
l’imposizione di una lingua si domina un popolo). Nella lingua madre ci sono
fierezza e orgoglio, radici che scavano nel passato e rami che si proiettano nel
futuro.
Utilizzare lingue diverse non significa cancellare o rinnegare le proprie origini: ognuno di noi ha un ‘imprinting’ culturale che lo distinguerà sempre.
… ed è (anche) una scelta :0)
Se la motivazione non è mera spocchia o
pigrizia, utilizzare un medley di
lingue può rivelarsi un gioco/esperienza interessante, e non solo a
livello linguistico perché (come diceva Wittgenstein) esiste un isomorfismo
strutturale tra lingua, pensiero e realtà. Inoltre, parlare/scrivere in
un'altra lingua permette di distanziarsi dal contenuto del testo/contesto o dal
proprio vissuto e offre possibilità espressive multifoniche.
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Post scritto ascoltando:
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