venerdì 11 luglio 2014

2014-07-11
No. 3

“(…) a kind of conversion, an epiphany of knowing something through words that could not be put in words.” John Williams, Stoner 


Quando ho iniziato questo blog, sapevo che 1) sarei stata discontinua (scrivere ‘tanto per’ è come vivere ‘tanto per’, i.e. non fa per me); e 2) non avrei scritto l’ennesima pagina di ‘recensioni o analisi letterarie’, non a testi ‘famosi’ almeno.
MA
per Stoner di John Williams ‘devo’ fare un’eccezione al punto 2) sopra, perché questo libro è…
JUST PERFECT
…perfetto, sotto ogni aspetto.
***
Lo ammetto, ero scettica, come sempre sono quando un libro viene ‘pompato’ un po’ troppo, specie in Italia. Anzi, in genere neppure scorro le recensioni, leggo ‘libro dell’anno’ e… passo oltre. L’ho acquistato solo perché mi sono imbattuta per caso in un commento di Ian McEwan (autore che amo) che mi ha convinto.
Raramente compro un libro a ‘scatola chiusa’, lo apro e lo scorro prima: leggo l’incipit e qualche frase qua e là, un po’ a caso, evitando per ovvi motivi la chiusa. Confesso che una volta letto qualche riga (velocemente ok), Stoner non mi aveva ‘preso’ particolarmente; sarà stato per il vocio di altre due persone nella libreria (che per me è quasi un luogo sacro, dove non si dovrebbe mai superare il bisbiglio) che a tutti i costi parevano voler fare notare un loro acquisto, sarà stato perché ero particolarmente stanca quel giorno. Comunque l’ho acquistato, in inglese; vero che preferisco leggere la versione originale di un testo se appena posso, ma volevo anche capire se era veramente quel neglected classic di cui tutti parlavano, almeno su Twitter, e quindi una traduzione avrebbe potuto essere ‘fuorviante’ in un senso o nell’altro.
INCANTATA.
Non trovo altro termine per definire la meraviglia e la gioia che ho provato nel leggere Stoner.
Stoner non si può ‘riassumere’, o meglio non ha senso farlo perché ciò che lo rende speciale non è ‘la storia in sé’ ma il modo in cui viene ‘detta’. Ci pensa già Williams a condensare la vita ‘ufficiale’ del suo personaggio, nello spazio di una pagina, la prima.
Stoner per me è un’ulteriore prova di come la ‘trama’ sia solo una delle componenti di un romance/novel e che la grandezza di un testo sia data anche da altro (oserei dire, da molto di più): dalla bellezza della scrittura e delle immagini, dalle parole che visualizzandosi prendono forma ed entrano in connessione con qualche parte di noi, e ci restano dentro per sempre.
Il tessuto connettivo di Stoner: la meraviglia e la forza delle parole
La meraviglia delle parole che non si può esprimere a parole.
William Stoner, a un certo punto, sentendo parlare un collega – che da potenziale soul mate si rivelerà, in effetti, suo ‘nemico’ a vita – riflette su come la letteratura abbia rappresentato per entrambi una via di fuga da un’esistenza limitata e offerto loro una sensazione di libertà operando
“a kind of conversion, an epiphany of knowing something through words that could not be put in words”;
credo che non ci sia modo migliore per descrivere quello che si prova leggendo Stoner.
Ed è questo il motivo per cui scorrendolo in libreria non ne avevo colto la reale bellezza, perché questa si apprezza quando, pagina dopo pagina, immagine dopo immagine, le parole ed i suoni compongono dentro di noi uno spartito unico. Ogni evento, anche il più apparentemente irrilevante, contribuisce a creare il sound del testo, proprio come in un gruppo musicale ogni strumento apporta il suo contributo; ci sono alcuni ‘assoli’ fantastici che già da sé ‘varrebbero il pezzo’, ma quello che stupisce è la perfezione del tutto.
Non è facile trovare un libro così. Molti libri, nell’insieme non eccelsi o alquanto noiosi, sono salvati da alcuni ‘sprazzi di luce’ che ce li fanno ‘tutto sommato’ apprezzare; di Stoner si ama ogni riga, ogni nota, il che ha a dir poco dell’incredibile. Sì, è un ‘classico’; perché come tutti i classici parla all’uomo di sempre e non andrà ‘fuori moda’ la prossima generazione; perché mentre da un lato non si vede l’ora di finirlo, dall’altro si vorrebbe non finisse mai, e non appena finito si è tentati di riprenderlo in mano e rileggerlo, e si sa che lo si rileggerà ancora; perché, ben più importante, ci lascia dentro uno strascico di sé e ad un’ulteriore lettura riesce ad emozionarci ancora, a farci scoprire nuove sfumature nelle immagini e descrizioni.
Certo non si possono conoscere tutte le lingue, certo le traduzioni ci permettono di accostare testi altrimenti irraggiungibili… ma, decisamente Stoner andrebbe letto in inglese se possibile. Una traduzione per quanto perfetta/ottima lo mutilerebbe comunque o lo ‘trasformerebbe’ in parte, come accade con tutti quei testi, ed in genere con la poesia, per cui la sonorità e gli accenti della lingua originale sono un tutt’uno col contenuto; una traduzione/traslazione non potrebbe rendere la musicalità di una scrittura limpida, di una lingua solo apparentemente ‘semplice’ e pervasa di un ritmo e tonalità sottili quanto penetranti.
PURO CRISTALLO.
Un esempio:

Una scrittura musicale e estremamente ‘visiva’ eppure tremo al pensarla convertita in linguaggio cinematografico, perché questo se non la banalizzerebbe, la limiterebbe, per forza. Stoner è uno di quei testi per cui le immagini e descrizioni dell’ambiente esterno (le luci e le ombre, i gesti e gli oggetti, i silenzi e i rumori, più o meno diretti e/o ovattati) sono estremamente importanti, rispecchiando o contrastando lo stato d’animo e le emozioni dei personaggi, ma per cui, paradossalmente, si sente che il potere evocativo della parola trasferito sul grande schermo perderebbe qualcosa.
La forza delle parole, la rivelazione di un potere trascendente attraverso un segno.
All’inizio Stoner non riusciva a comprendere l’utilità ‘pratica’ della letteratura:
“He read and reread his literature assignments (…) and still the words he read were words on pages, he could not see the use of what he did.”;
poi un sonetto di Shakespeare opererà la conversione, l’epifania, cambiando il percorso della sua vita:
“He looked away from Sloane about the room. Light slanted from the windows and settled upon the faces of his fellow students, so that the illumination seemed to come from within them and go out against a dimness; (…). Stoner’s eyes lifted slowly and reluctantly. ‘It means’, he said, and with a small movement raised his hands up toward the air (…) ‘It means’, he said again, and could not finish what he had begun to say.”
Lo stupore che coglie Stoner, non può che condensarsi in un gesto abbozzato a significare l’inesprimibile, come il riflesso della luce di fine autunno sui volti dei suoi compagni e sulle sue mani scure da contadino:
The everyman (l’uomo qualunque)
Esattamente come i suoi genitori non si sono mai allontanati dall’appezzamento di terra cui hanno dato la vita (sentendosi ‘fuori luogo’ e a disagio nelle poche, brevi, occasioni in cui lo hanno dovuto fare, ad es. per la laurea o il matrimonio del figlio); così William Stoner non si allontanerà praticamente mai dall’Università, vivendoci quarant’anni, prima da studente e poi da insegnante.
Parrebbe triste vista da fuori, con gli occhi dei suoi colleghi e/o studenti (e forse di qualche lettore distratto), la vita di Stoner: noiosa, banale; Stoner stesso, a volte, ripensa alle proprie scelte, o non scelte, e si trova a meditare sul valore reale della propria esistenza:
He was forty-two years old, and he could see nothing before him that he wished to enjoy and little behind him that he cared to remember.”
“He had come to that moment in his age when there occurred to him, with increasing intensity, a question of such overwhelming simplicity that he had no means to face it. He found himself wondering if his life were worth the living; if it had ever been.”
In realtà la sua è stata una vita coerente e piena, pur se vissuta in una dimensione parallela a, se non del tutto distinta da, quella del resto del mondo.
Ha osservato gli altri (genitori, amici, colleghi, studenti, moglie, figlia, amante…) e li ha compresi più di quanto questi se ne siano resi conto, e meglio di quanto non siano stati in grado di comprendersi loro stessi. È lui il primo a essere sorpreso e/o sconvolto dalla propria perspicacia o capacità d’introspezione, al punto che spesso la ‘allontana da sé’ (soprattutto quando disillusione e amarezza diventano insostenibili) o arriva ad accettarla poco per volta:
“The enormity came upon him gradually, so that it was several weeks before he could admit to himself (…); and when he was able at last to make that admission, he made it almost without surprise. (…) It was a strategy that disguised itself as love and concern, and thus one against which he was helpless.”
“For a moment he felt almost physically ill. He looked down at the table and saw between his arms the image of his face reflected in the high polish of the walnut top. The image was dark, and he could not make out its features; it was as if he saw a ghost glimmering unsubstantially out of a hardness, coming to meet him.”
E ha osservato gli eventi, anche quelli cui non ha partecipato direttamente, ma di cui ha potuto afferrare comunque le conseguenze. Conosceva la durezza del vivere:
“William Stoner knew of the world in a way that few (…) could understand. Deep in him (…) there was always near his consciousness the blood knowledge of his inheritance, given him by forefathers whose lives were obscure and hard and stoical and whose common ethic was to present to an oppressive world faces that were expressionless and hard and bleak.”
Soprattutto, era stato ed era diventato chi aveva scelto di essere: a teacher; anche se per molti anni era rimasto indifferent e aveva avuto momenti di disillusione/delusione professionale:
He had dreamed of a kind of integrity, of a kind of purity that was entire; he had found compromise and the assaulting diversion of triviality. He had conceived wisdom, and at the end of the long years he had found ignorance.”
E a suo modo era stato fortunato, aveva ricevuto in dono la gioia della ricerca a farlo sentire ‘vivo’:
“Beneath the numbness, the indifference, the removal, it was there intense and steady; it had always been there. (…) He had, in odd ways, given it to every moment of his life (…). It was a passion neither of the mind nor of the flesh; rather, it was a force that comprehended them both, as if they were but the matter of love, its specific substance. To a woman or to a poem, it said simply: Look! I am alive.”
La consapevolezza di aver vissuto se stesso e di averlo sempre saputo in fondo, il gnòthi seautòn (conosci te stesso) di antica memoria, si materializza con forza in Stoner pochi istanti prima della morte, istanti che ‘egoisticamente’ vuole vivere da solo.
L’’epifanìa (rivelazione) si compie, le parole che gli hanno offerto una via di fuga da una vita altrimenti destinata a ripercorrere i solchi di quella paterna sono state il suo strumento di lettura del mondo e di sé:
“A kind of joy came upon him (…). He dimly recalled that he had been thinking of failure – as if it mattered. It seemed to him now that such thoughts were mean, unworthy of what his life had been. (…)
There was a softness around him, and a languor crept upon his limbs. A sense of his own identity came upon him with a sudden force, and he felt the power of it. He was himself, and he knew what he had been.”
The dreamer (il sognatore)
“Who are you ? A simple son of the soil, as you pretend to yourself ? Oh, no. You… are the dreamer. You think there’s something here, something to find. (…) And you have no place to go in the world.”
È Dave Masters (compagno di studi morto in guerra, personaggio che compare a cadenza regolare e che insieme ad Archer Sloane, the teacher che ha introdotto Stoner alla letteratura, funge un po’ da ‘chiave musicale’ dello spartito/testo) a chiarire a Stoner come la ‘reale’ funzione della University sia quella di offrire un rifugio a quelli come loro: the dispossessed, the crippled (gli espropriati senza fissa dimora, i ‘disabili’), i.e. coloro che al di fuori di quel perimetro (non solo ‘fisico’) si sentirebbero ‘persi’ – essendo i propri valori e aspirazioni inconciliabili con le regole del ‘mondo’ – e che di quel punto fisso di riferimento hanno bisogno per dare un senso alla propria vita:
Like the Church in the Middle Ages, which didn’t give a damn about the laity or even about God, we have our pretenses in order to survive.” 
L’Università è il luogo incantato, rifugio e prigione al contempo (Stoner stesso ricordando in seguito le parole dell’amico la definirà “asylum; termine il cui significato proprio/originario di ‘tempio’ o ‘luogo sacro in cui trovare protezione’ pare sovrapporsi a quello di ‘istituto psichiatrico’), in cui Stoner trova quel conforto e protezione che ogni bimbo dovrebbe ricevere dalla propria famiglia e in cui scopre la sua vera identità. Le mura di protezione che permettono alla sua passione per le ‘parole’ di nascere, crescere e sopravvivere alle guerre della Storia e della sua storia privata.
“You must remember what you are and what you have chosen to become, and the significance of what you are doing. There are wars and defeats and victories of the human race that are not military and that are not recorded in the annals of history.”  Così Archer Sloane si rivolge al suo ex allievo indeciso se arruolarsi (prima guerra mondiale) o restare e continuare ad insegnare.
Ma, anche se sembra paradossale, è la ‘passione’ il soundtrack della vita di Stoner:
It’s love, Mr. Stoner’, Sloane said cheerfully. ‘You are in love. It’s as simple as that.”
Dopo dieci anni d’insegnamento, Stoner avrà la sua seconda epifanìa. La scoperta dell’amore per la figlia lo trasformerà e gli disvelerà, o meglio gli permetterà di ‘manifestare’ agli altri, chi è veramente, e finalmente riuscirà a ‘comunicare’ la sua passione per la letteratura:
“The love of literature, of language, of the mystery of the mind and heart showing themselves in the minute, strange, and unexpected combinations of letters and words, in the blackest and coldest print – the love which he had hidden as if it were illicit and dangerous, he began to display, tentatively at first, and then boldly, and then proudly.”;
e, scoprendosi capace di trasmettere ciò che sente, comprenderà di essere finalmente diventato:
“(…) a teacher, which was simply a man to whom his book is true”.
La passione intellettuale per la ‘conoscenza’ troverà una travolgente quanto inaspettata espressione in quella fisica, e la seconda offrirà ulteriore stimolo alla prima, quando Stoner incontrerà l’amore vero: una relazione che costituisce una sorta di apice nella sua vita, in un certo senso un’ulteriore epifanìa; i due mondi (intellettuale e fisico) pensati in precedenza quasi a sé stanti, se non inconciliabili, si compenetreranno e completeranno a vicenda.
“They had been brought up in a tradition that told them in one way or another that the life of the mind and the life of the senses were separate and, indeed, inimical; they had believed (…) that one had to be chosen at some expense of the other. That the one could intensify the other had never occurred to them (…).”
Svincolata da ogni interesse, comunque limitato, la passione si purifica e ‘perfettizza’. Stoner comprende che l‘amore non è fisso, cristallizzato, ma si rivela nel ‘divenire’, nel ripetersi della scoperta del cuore e della mente, nella gioia della ricerca, dello studio per il gusto puro della conoscenza senza un fine ultimo.
In his forty-third year William Stoner learned what others, much younger, had learned before him: that the person one loves at first is not the person one loves at last, and that love is not an end but a process through which one person attempts to know another.”
“In his extreme youth Stoner had thought of love as an absolute state of being (…); in his maturity he had decided it was the heaven of a false religion (…). Now in his middle age he began to know that it was neither a state of grace nor an illusion; he saw it as a human act of becoming, a condition that was invented and modified moment by moment and day by day, by the will and intelligence and the heart.”
Una nota curiosa
Se ‘William’ fa pensare subito a ‘John William(s)’ e a ‘William Shakespeare’ (il cui Sonnet 73 rivela la meraviglia della letteratura a Stoner); ‘Stoner’ ha chiara e sonora in sé la radice di stone, ‘pietra’. Tra i molti significati simbolici di stone, nella tradizione prevale quello di ‘pazienza e saggezza’, di forza della ‘stabilità e memoria storica’. Le radici della terra da cui William proviene (e i cui ‘tratti fisici’ porterà sempre con sé, nella postura un po’ cadente, nella ‘pelle conciata’ del volto e nelle grandi mani ossute), ma anche le fondamenta di quegli edifici universitari in cui da giovane vagava con ammirazione e venerazione, rispecchiano perfettamente tali significati simbolici.
Forse è voluto, forse no, però è vero che anche altre due figure principali hanno dei nomi che incuriosiscono. Il professor Sloane si chiama ‘Archer’ e l’arco è simbolo di equilibrio nella tensione e di successo attraverso la determinazione; mentre l’amico/compagno di bevute e riflessioni Dave Masters in quel ‘Master’ richiama sia il significato di ‘maestro’ che di ‘capitano di lungo corso’. Entrambi, in effetti, sono dei punti fermi per Stoner nel suo processo di comprensione di sé e della propria vita.
Simbologie vere o presunte, Stoner avrebbe potuto chiamarsi anche XY; questo libro è decisamente un ‘classico’ e chiunque ami la letteratura, quella vera, quella che fa sperimentare l’epifanìa di conoscere attraverso le parole ‘qualcosa’ di inesprimibile a parole, non può che esserne incantato.
Lungi dall’essere una recensione o un’analisi del testo, questo mio post vuol solo comunicare delle suggestioni, del tutto personali; ma, in fondo, è sempre ‘soggettiva’ l’esperienza di un lettore.

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...whoops...
Recensione di Minima&Moralia (SOB!) e mio commento (n. 4)

I just LOVE "Twitter" :O)
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mercoledì 14 maggio 2014

2014-05-14
No. 2


Poesia e ironia (*)
Sul self-publishing/POD, sull’arroganza di alcuni ‘scrittori in erba’, sulla ‘spocchia’ di certi editors, ma anche una riflessione su quello che per me significa ‘scrivere’.
(*) Il titolo mi è stato suggerito da una risposta molto carina a un mio ‘tweet' (risposta in cui mi ritrovo perfettamente, ringraziando io quotidianamente la Sorte per l’autoironia cui devo la mia resilienza e rincorrendo, quando leggo o scrivo, la poesia/musica nelle parole altrettanto quanto il loro significato).
Premessa
Come ho scritto in un 'tweet', per me scrivere è un po’ come comporre musica con le parole:

Credo che nelle citazioni seguenti si potrebbe sostituire ‘Jazz’ e ‘play’ con ‘writing’:
  • Jazz is not just, ‘Well, man this is what I feel like playing.’ It's a very structured thing that comes down from a tradition and requires a lot of thought and study.
(Wynton Marsalis)
  • Jazz can be learned, but it can't be taught.
(Paul Desmond)
  • Don't play what's there, play what's not there.
(Miles Davis)
  • It’s the notes that you don’t play that make the difference.
(Miles Davis)
Scrivere non significa rovesciare sulla carta emozioni e immagini più o meno ‘connesse’, richiede impegno, studio e, sì, anche ‘fatica’. Però, se il ‘jazz/writing’ può essere ‘imparato’ non può essere ‘insegnato’; sembrerebbe un paradosso, ma in realtà è vero: si possono apprendere le tecniche di scrittura, si può imparare a scrivere bene, ma quello che ‘fa la differenza’, che permette di andare oltre la ‘bella immagine’, è ‘suonare quello che non c’è’, che non è ancora stato composto, o reinventare ciò che è già stato ‘scritto’ in modo che sia comunque ‘altro’. Poi, al di là della tecnica, del ‘bello scrivere’, occorre qualcosa in più, quello che distingue un libro come tanti/troppi da un’opera d’arte/classico (o che comunque lo rende 'originale’), ed è quel qualcosa che anima le parole dal di dentro, che ‘non si scrive’: le note che (per l’appunto) ‘non si suonano’.
Perché questo post?
Perché mi sono imbattuta, per caso, nel corso dei miei viaggi incrociati sul world wide web, in un appunto/post sul self-publishing et al. (invero risalente a qualche anno fa) nel Blog di una nota casa editrice.
Stupita non tanto dal contenuto quanto dal tono del post, a dir poco offensivo nei confronti dei cosiddetti autori ‘esordienti’ – i quali, che sia ben chiaro, non hanno alcun ‘diritto’ di essere letti solo perché hanno deciso di scrivere illudendosi che il loro ‘prodotto’ sia in qualche modo ‘degno’ di attenzione (almeno stante a detto post) – da parte di un autore/editor a sua volta relativamente esordiente e il cui libro a dire il vero non ho trovato così entusiasmante (parere, ovvio, del tutto personale, come del resto lo è quello di ogni lettore, che sia tale per professione o per diletto) o almeno non certo degno di autori tipo (due a caso) Malamud o Sciascia; pur concordando, in parte, con quanto letto nel post e negli abbondanti commenti sottostanti, mi sono sentita come ‘parte in causa’ (avendo io ‘pubblicato’, ossia ‘reso disponibili in formato cartaceo/elettronico a un eventuale pubblico che fosse interessato’, alcuni libercoli su uno dei siti citati in detto post come es. di ‘feccia’ i.e. ‘ilmiolibro.it’) in obbligo di difendermi.
Lasciando perdere cosa realmente significhi o si intenda ‘oggi’ con ‘pubblicare’, mi focalizzo sul lato offensivo ed evidentemente ‘di parte’ del post.
Lo pseudo-sillogismo dell’editor/autore del post era di questo tipo:
(A) se ti auto-pubblichi sei un narciso
(B) se scegli il Print On Demand sei un allocco
– e, in ogni caso, ovviamente, non sai scrivere –
quindi (A+B=C): non sei degno di essere preso in considerazione da parte di un qualsivoglia ‘editor’ affermato intellettuale raffinato ed esperto e sarai ‘scartato’ a priori/a prescindere da qualsivoglia casa editrice seria (di qualunque dimensione).
Dubbio ca. la qualifica di esperto: merito (1) conquistato sul campo dopo anni di gavetta come correttore bozze/studi (lauree e/o specializzazioni post-diploma) specifici? o (2) bypassato (a) per conoscenze ‘dirette’ nella ricicleria della cittadina natale e da qui poi lanciato, missile terra-aria, nel continente ‘mondo’? o (b) riuscendo a farsi pubblicare un libro attraverso incroci e incontri di natura diversa ma non sempre alla portata di tutti? Ovvio, la fortuna, si sa, è per definizione cieca e, ancora più importante, bisogna saperla afferrare con le unghie uncinate di un lupo mannaro.
Non che ci si possa aspettare un parere diverso da chi fa parte dell’establishment, sarebbe ingenuo, ma, in effetti, però… magari un po’ più di ‘rispetto’? Non tutti quelli che si auto-pubblicano ‘sanno scrivere’, vero, ma ce ne sono altri che, in effetti, scrittori lo sono già, di professione, e hanno scelto di affidarsi a una ‘tipografia online’ per motivi diversi. Nella fattispecie, sul sito tanto denigrato dall’autore del post, ho letto libri scritti da giornalisti, sceneggiatori et al. molto più apprezzabili (linguisticamente/letterariamente) e originali del suo (parere personale, ovvio).
Certo che dopo aver letto un post su un blog di cotanta fama e ‘penetrazione’ tra gli amanti dei libri che affossava senza mezzi termini e con malcelato disgusto il sito di POD che pure io, sventurata!!, avevo scelto come ‘stamperia’… non ho potuto frenare una spontanea reazione.
‘Ma chi te l’ha fatto fare? Auto-pubblicarsi equivale a firmare un’autocondanna a morte letteraria (ammesso avessi qualche velleità in tal senso). Dovevi pazientare, smuovere terre e acque, incurante di liquami e frattaglie, e realizzare il tuo sogno (perché, ammettilo, sognavi pure tu!!) nel modo ‘tradizionale’. Ora per il solo fatto di aver scelto l’innominabile sito sei ‘doomed & framed’, condannata ed etichettata a vita come ‘narcisa incapace e allocca’, scartata prima ancora della pagina/dedica, negata a prescindere del diritto (ma quale ‘diritto’? ‘speranza’, piuttosto) di essere letta, un paria della scrittura da non leggere perché sicuramente son soldi e minuti buttati’.
Certo che se un autore che stimo, o un editor obiettivo e scevro d’interessi/invidie personali, dopo aver letto l’‘obbrobrio’, pacca sulla spalla, voce dolce e paterna, mi avesse consigliato: ‘guarda, meglio torni a sfornare biscotti’, forse mi sarei messa il cuore in pace e avrei scritto le mie ricette in rima, ma detto così, da uno scrittore come tanti/troppi (ok, valutazione personale), che solo perché ha una vetrina ‘ufficiale’ la usa per sparare a zero e preservarsi il proprio cappuccino (ok, forse la colazione la ‘salta’), è come una staffilata alle spalle, inflitta e ricevuta a prescindere dal meritarsela o no.
Già, che ne sa costui dei sogni altrui, a lui interessano solo i propri, e mica se l’è scelto male il soggetto del suo primo libro, anzi… facile, facile, quasi quanto oggi scrivere ad es. un libro pro/contro euro/Europa: quello qualcuno te lo pubblica sicuro, tema giusto nel tempo giusto. L’editoria è marketing, non scordiamocelo, mica beneficienza! E chi mai ha osato dubitarne? specie in queste annate di magra anche per i grandi nomi; quei pochi che riescono a far soldi (e a farne fare alle case editrici) si contano forse su quattro paia di mani in tutto il mondo. No, non è il parere di un singolo che mi preoccupa, è che, data la posizione che occupa, il suo pseudo-sillogismo è in grado di influenzare il parere di altri editors/lettori, oltre alla consapevolezza che molti, nella sua stessa posizione o comunque all’interno dell’establishment, sono pienamente allineati e concordi: chi si autopubblica non va neppure considerato, punto.
Cheto la vocetta interiore e mi consolo un po’ con i commenti a detto post e ad altri simili che trovo sul web.
Ecco, guarda, c’è il blog dedicato agli scrittori esordienti che sconsiglia il POD perché se ti fai stampare il libro da te o sei stupido o sei incapace o sei arrogante (stesse parole – ma cos’è un ‘copia e incolla’? – del precedente) o (e questa è nuova) sei vittimista e pigro. Datti da fare, mica ti piove dall’alto il contratto di pubblicazione: leggi, scrivi, contatta, frequenta, riscrivi, ricontatta (roba da stalkers)… Sì, ma chi? cosa?... Editors noti/altri scrittori che ce l’hanno fatta (e non siano competitivi/invidiosi, ovvio; ma che idealismo ‘romantico-buonista’!), case editrici (nota bene quelle ‘piccoline’, che fanno fatica a resistere e che encomiabili nel loro sogno – parallelo a quello di detti esordienti – non siano già ‘in liquidazione’ a pochi anni dall’apertura), gruppi e sottogruppi di scrittura, ecc.
Mi viene da ridere, ma per fortuna uno ‘scrittore vero’, giornalista noto, che in passato ha pubblicato per vie ‘consone’ e poi ha optato per il POD, ci aveva già pensato a commentare…
Vedi, ‘cara’, non è proprio così facile come dici, non è che uno sia per forza pigro o vittimista, forse solo disilluso, forse solo un pochetto più esperto di come funzionano le cose nella ‘realtà’ (e non nel mondo ideale).
…e concludeva con un ironico augurio alla carriera letteraria dell’autrice del post. Già perché l’autrice del post, oltre che a, chiaramente, ‘darsi da fare’ sul web come consigliava ai ‘pigri vittimisti’, aveva i propri libri nel cassetto.
Viene da pensare che molti di questi posts pro-editoria tradizionale che girano sul web rovesciando insulti contro chi (avendo solo una vita da vivere) decide di far stampare il proprio libercolo da sé, siano scritti se non da ‘interni’ all’establishment da altri che aspirano ad entrarci, per attirare attenzione su se stessi (?). Beh, di sicuro non denotano pigrizia, solo ‘banalità d’idee’, forse anche un pizzico di nostalgia retrò, ma soprattutto sono vittime pure loro: perché non c’è molta differenza tra chi lecca e chi denigra, la differenza vera la fa chi resta obiettivo ;)
Senza contare che essere bravi a ‘promuovere’ un prodotto non implica automaticamente che quel prodotto sia valido. Un bravo ‘scrittore’ non è necessariamente un bravo ‘agente’ di se stesso (e vice versa), e non tutti se lo possono permettere un bravo agente. No, nessun vittimismo, il mio è ‘realismo’.
Dovremmo tutti iscriverci a corsi di editoria e self-marketing/self-branding oltre che di scrittura? Un vero business, che (almeno in Italia) produce certo più introiti della vendita dei libri ;)

Certo se non vuoi investire tempo/denaro in questi corsi non è perché non puoi (non hai denaro/tempo) è perché non ti dai da fare a sufficienza e preferisci un passivo vittimismo; il che può essere anche vero per alcuni, ma non ‘necessariamente’ per tutti.
Vedi, ‘cara’, c’è chi cerca di sopravvivere e non ha santi protettori (genitori, partners o altro) che gli/le paghino cappuccino e affitto… e corsi di ‘specializzazione’ (che poi, se non si hanno ‘agganci’, servono?). Cara ‘sputa-sentenze’ hai mai provato a scrivere a pancia vuota, ecc. senza svenire? Certo ‘oscillare’ a un passo dalla finestra aperta non sarebbe male, problemi sussistenza/pubblicazione? risolti; basta si stia ai piani alti, ovvio. Immolarsi al sacro fuoco dell’Arte… E poi che ne sai? Magari chi poi opta per il POD è proprio chi scrive a lume di candela, nella propria soffitta fredda, mangiando latte e biscotti, ed è pronto a sacrificare il sacrificabile perché nel suo sogno ci crede; poi può anche essere un illuso ignorante incapace, ma non necessariamente, non ‘a prescindere’.
Altro dubbio che alcuni sollevano: non è che le case editrici ‘tradizionali’ abbiano paura (solo un pochetto) che questo dilagare di ‘dilettanti’ sottragga loro quei già pochi lettori che risicando si contendono?
No, dei lettori e utenti del sito ‘ilmiolibro.it’ (o di altri simili) l’‘autore pubblicato’/editor del post che ha ‘iniziato’ la mia reazione spontanea (ma non è certo l’unico a pensarla così) se ne infischia: tutt’altro mercato! Ovvio neppure pensa alla quantità, perché quella in Italia possono vantarla solo gli editori di libri scolastici e ricette per cucina, è alla qualità che si riferisce, o sotto-qualità :(

Ok, un po’ di ragione l’ha pure: la maggior parte di chi si auto-pubblica non conosce la differenza tra una virgola e un punto, e questo non è neppure il problema più grave; però, ecco, i preconcetti snob ‘a senso unico’ mi danno fastidio, soprattutto se poi si leggono le ‘perle rare’ che selezionano certi editori ‘tradizionali’, certi libri pubblicati ‘come si deve’, alcuni anche premiati da concorsi noti (pilotati ad hoc?, ci si chiede). Beh, si sa, i soldi non sono mai sporchi e puzzano solo quelli che sono nascosti nei calzini degli altri... già. Giocare facile; e chi non lo farebbe? specie di questi tempi. Meglio investire su una faccia nota che poi usa, se va bene, il ghost writer per accomodare la sua biografia stantia e del resto ‘chissenefrega’, tanto tira.
Investire su un emerito nessuno non è da tutti, pochi se lo possono permettere, ed è davvero un tour de force distinguere tra tutta quella carta straccia rovesciata a sacchi dal postino il prossimo best-seller (figurarsi un possibile futuro ‘classico’). Un po’ come per un selezionatore è difficile estrarre il CV migliore e veritiero dal mucchio esponenzialmente crescente sia per quantità che plagio. Nulla da eccepire al riguardo, anzi si sente un moto di pietà per l’editor/selezionatore attorniato da tutti quei sacchi di ‘immondizia’ (ma davvero sono ancora cartacei i plichi?).
Perché poi perdere tempo? Tanto, alla fine, è mero marketing mirato, che si pubblichi per la ‘massa’ o per una stretta cerchia d’élite. Se si pompa un libro come la novità dell’anno che va assolutamente letta secondo il tal critico/autore/personaggio famoso pochi oseranno dissentire e dire che è una ‘cagata al cubo’, pena passare per stupidi/invidiosi. ‘Se lo dice quel tipo importante… se ne intenderà certo più di me’, davvero?
Lo si sente dire da anni: non c’è più abitudine a leggere, si legge poco, si legge male, si è perso anche quel ‘senso critico’ che permette di distinguere e riconoscere i propri gusti, persino il ‘lettore forte’ a volte si affida troppo alle recensioni e compra a scatola chiusa senza ‘sfogliare’. C’è chi poi compra i libri come compra i detersivi al supermercato: guarda il prezzo, soppesa il numero di pagine, si ricorda che quel nome lo ha già ‘sentito’, quindi è un brand che ‘assicura qualità’ e non farà sfigurare in metropolitana o in spiaggia.
Si può ‘rimediare’ a questa ‘picchiata netta’? Penso di sì; se gli editors/editori ‘seri’ smettono di restare arroccati in una posizione di difesa passatista che alla fine li danneggia e si aprono/adeguano al ‘cambiamento’: perché se si critica ‘in negativo’ bisogna proporre ‘in positivo’. Il relativamente nuovo (in Italia) incremento di POD e self-publishing dovrebbe fare riflettere i ‘guru’ del settore in modo auto-critico, invece che alzare la punta del naso e ridere di questi ignoranti pseudo-lettori/scrittori… forse non tutto è come pensano/vorrebbero (far) credere, magari c’è dell’altro che ‘vale la pena’ di analizzare meglio.
Perché ‘io’ ho optato per il POD?
Quando ho deciso di pubblicare il mio primo libro non l’ho fatto per ‘narcisismo’ o perché mi illudessi che qualcuno della ‘cricca che conta’ (NB: espressione non mia, ma trovata in uno dei commenti letti sul web) tra le migliaia (forse più) di libri postati sul sito si imbattesse e leggesse e apprezzasse proprio il mio. No. Anzi, sono convinta che la ‘cricca che conta’ (ossia case editrici ed editors seri/colti) quel sito non lo guarda proprio… sia perché ha già troppo da fare per vagliare altri testi, sia perché dà per scontato che non ne valga la pena: meglio tenersi il poco tempo libero per far riposare gli occhi o scrivere un post su un blog d’élite o ‘twittare’ ad hoc (marketing più o meno subliminale).
E allora perché?
Perché mi andava di farlo, tutto qui. Non era nemmeno il libro che avevo ‘nel cassetto da anni’, no, era nato quasi per caso pochi mesi prima, un esperimento musicale-letterario, il ritmo del Blues che scandisce un’esperienza precisa e limitata nella vita di una donna e l’analisi introspettiva sulla stessa che ne segue, ironica e amara al tempo stesso. Ogni parola è stata scelta per il valore musicale che aveva nel contesto oltre che per il suo significato proprio.
Perché prima non provare a inviare il ‘manoscritto’ a qualche casa editrice?
Non per pigrizia, ma per ‘consapevolezza’. Non avendo alcuna conoscenza diretta tra le alte sfere (e comunque per carattere non avrei accettato ‘raccomandazioni’ o spintarelle), sapevo che non avrei ricevuto attenzione se avessi inviato il plico a una di quelle case editrici indipendenti che già faticano a stare a galla, se non forse per ‘un colpo di fortuna’ (mai avuto in vita mia, poco probabile l’avessi ora). Questi editori ‘minori’ poi (almeno quelli che conosco e che ancora accettano di visionare uno sconosciuto e promettono una riposta, fosse solo un ‘no grazie’, entro un anno) non prevedevano in catalogo un libro come il mio: una forma troppo a sé stante/originale, un testo decisamente ‘non alla moda’. Ho pensato se lo faccio stampare e vedono ‘come esce’ forse ho una possibilità in più che lo sfoglino… Ingenua? Probabile.
Mi credo una scrittrice? (LOL)
Lo sono, da sempre, anche se quel mio ‘libro nel cassetto’ probabilmente resterà in fieri e finirà nella spazzatura dopo il mio decesso. Dire che mi sento una scrittrice ovviamente non implica che mi consideri una ‘grande’ scrittrice. Non sono un narciso, o forse sì, magari lo sono, fiera della mia indipendenza di pensiero (per quanto possibile).
Alcuni dicono che scrittori si diventa, che si impara faticando (e ‘pagando’; le scuole di scrittura son lì per questo), io dico che scrittori si nasce. Si può imparare a scrivere bene/correttamente certo, quanto basta per scrivere un articolo su un giornale, come si possono imparare le tecniche per pubblicare un best-seller ad hoc, ma per me essere scrittori è qualcosa di diverso, che ha radici più profonde. Saper scrivere è solo la base di partenza, principio necessario ma non sufficiente si direbbe in matematica. Ovvio che non basta rovesciare parole su parole per definirsi scrittori, né pubblicare o farsi pubblicare un libro. Tra i tanti che oggi pubblicano (non attraverso servizi POD, ma case editrici più o meno famose), di ‘scrittori veri’ non ne trovo molti, non in Italia purtroppo.
So bene che il mio stile non segue i gusti correnti, l’architettura del testo e la struttura della frase non riflettono la scaletta da tema scolastico: preambolo/corpo/conclusioni/fine; soggetto + verbo + complemento oggetto e qualche aggettivo/avverbio di contorno. Non m’interessa, di quelli ce ne sono già a bizzeffe. Io scrivo la musica che mi suona dentro e come per la musica, se uno ama un sound laccato e preconfezionato in studio di registrazione, è difficile che ami il Blues o il Jazz.
Del resto non mi interessa raggiungere la 'perfezione asettica', mi interessa la 'verità pulsante', come ho scritto nel mio primo libro (Un uomo semplice):
c’è chi vive ‘l’arte per la vita’, chi ‘l’arte per l’arte’ e chi ‘la vita per l’arte’, ossia vive l’arte al punto da sovrapporla e farla coincidere con la propria vita’.
Credo che ‘Un uomo semplice’ sia un buon libro?
Sì. So che avrebbe necessitato di ulteriore editing, che mi sono sfuggiti un po’ di typos e qualche virgola (colpa di anni di 12 ore di fila al giorno davanti al PC, non solo ho lavorato sottopagata e con straordinari non riconosciuti, weekend inclusi, ma, beffa su beffa, ci ho rimesso la vista!). So che avrei dovuto farlo riposare alcuni mesi e poi riprenderlo e levigarlo, ma non avevo tempo, non so quanto ne avrò ancora del resto. Sono sempre stata una perfezionista, ma col tempo ho imparato a dirmi: ‘ok, la perfezione non esiste, questo è il massimo che posso raggiungere/produrre ora’. Mentirei se mi dicessi soddisfatta al 100% (lo sono al 96%), però so che il libro è un buon libro.
Sono una lettrice severa e negli anni ho imparato anche a essere schizzinosa (leggere ‘con attenzione’ richiede tempo, meglio non perderlo con testi che non mi dicono/danno nulla). So che il mio libro non è un capolavoro che passerà alla Storia, ma so che mi è piaciuto rileggerlo ancora più che scriverlo. È un testo particolare, ricco di immagini e spunti di riflessione, una storia che nella sua ‘normalità’ si carica di altro, proprio come il Blues, un ritmo solo apparentemente ‘semplice’.
In cosa è diverso e perché lo consiglierei?
Primo: è ben scritto (lo so); secondo: è sincero (e si sente); terzo: ha una forma originale. Ogni parola (o quasi) è stata scelta, soppesata e fatta risuonare. È come una composizione musicale, le parole si rincorrono come note, si riallacciano, riflessioni/ritornelli vengono ripresi e ampliati. La prima parte scorre veloce e si può leggere tutto d’un fiato in poche ore; nella seconda il ritmo rallenta, il testo si fa più denso ed è meglio suddividere la lettura. Chi ama la musica Blues la ritroverà. Pensavo fosse un libro ‘al femminile’, ma mi ha sorpreso: le recensioni ed i commenti più ‘belli’ che ho ricevuto (sul sito e non) sono stati da parte di uomini.
Perché ho scelto proprio ilmiolibro.it?
Semplice. Volevo far stampare il libro che avevo scritto ed era l’unico sito (almeno tra quelli che allora avevo visionato) che accettava il file in formato Word (non avevo possibilità di convertirlo in e-pub o farne un .pdf decente) e consentiva di stamparne ‘poche copie’ (anche se per l’autore il costo ‘singolo’ non era certo basso e obbligava, caso si optasse per la vetrina/vendita, a un prezzo di copertina relativamente alto per ‘pareggiare’; ma che me ne facevo di 100/500 copie a costo inferiore?).
Poi offriva nel ‘pacchetto’ anche l’ISBN (lo so, si può acquistare anche privatamente, però diciamo che era una scorciatoia comoda) ed il sito dopotutto era gestito da Feltrinelli/L’Espresso, una specie di garanzia in più. L’ISBN l’ho richiesto per due motivi: (1) si sa mai che qualcuno volesse acquistarlo in libreria (non tutti ancora si fidano dell’online); e (2) era una specie di salvagente supplementare, si sa mai che qualcuno lo plagiasse. So bene che basta ‘pubblicare’ un testo per aver riconosciuto il copyright, però diciamo che era una sorta di ulteriore tutela, per ingenua che possa apparire.
Delusa dalla mia esperienza su ilmiolibro.it? No. Offrono quello che promettono e non promettono più di quello che offrono. Chi si ‘illude’ di essere notato e diventare famoso si ‘auto-illude’, punto; ed essenzialmente perché non sa leggere o legge (nelle varie guide all’uso, suggerimenti, ecc.) quello che vuole leggervi; della serie: se neppure sanno interpretare correttamente quanto scritto nella propria lingua…
Vero che il contratto che ‘si è costretti’ a sottoscrivere è sbilanciato tutto a favore del sito, vero che sono pagine e pagine di clausole e giri di parole orchestrati ad arte, ma dopo anni di studi legali ho visto di peggio e, alla fine, per quello che mi serviva andava bene. Sono consapevole di aver sottoscritto un contratto ‘sibillino’ e assurdo per un sito che fornisce essenzialmente un servizio di tipografia/vetrina/spedizione, ma avete mai letto le clausole di applicazioni quali Twitter o Facebook o simili? È ovvio che non ci sia nulla di ‘gratis’ a questo mondo, che qualcosa ci debbano pure ricavare, ma non sempre è esplicitato ‘chiaramente’ cosa… eppure tutti le scaricano senza fiatare, ‘cliccano sull’ok’ scrollando le spalle o peggio neppure le scorrono le clausole. Insomma, non sono certo dei santi illibati gli avvocati che hanno redatto il contratto per ilmiolibro.it, ma tra tanti pescecani perché additare solo (o soprattutto) loro? Perché il sito ha una ‘comunità’ (troppo) vasta? È poi davvero ‘al limite dell’illegale’ questo contratto come alcuni posts implicano? Mmm, direi piuttosto che chi l’ha scritto è stato molto abile, ma non tutti quelli che lo sottoscrivono sono ‘allocchi per definizione’. Che si può fare altrimenti? Aprire Partita Iva e vendere via proprio blog/sito web? Perché auto-pubblicarsi e vendere online senza POD/intermediario significa e-commerce, per quanto ne ho capito io almeno.
‘Non è chiaro il loro sistema di fatturazione’? Vero, quel sito è un casino in tutto: l’accesso, l’upload, la lettura in anteprima dei testi, la conversione in formato e-book troppo costrittiva e con resa non eccezionale (per quanto io sia esperta di editing e impaginazione non c’è verso di modificare l’impostazione del template), persino la distribuzione via corriere (per ricevere le poche copie del mio secondo libro ho aspettato più di un mese tra disguidi vari)… e quando ti mandano il ‘resoconto vendite’ capisci come anche l’amministrazione non sia molto meglio. Non posso fare confronti con altri siti però, e quindi non mi sento di puntare troppo il dito su ilmiolibro.it che comunque, alla fine, produce una stampa decente, su carta di consistenza un po’ migliore di quella igienica, con una rilegatura che non puzza troppo di colla e resiste ad aperture ripetute.
E che dire dei concorsi? Un ovvio sistema di marketing pilotato ad hoc. Eppure, hai partecipato anche tu a quello di Poesia? ;) Sì, vero, l’ho fatto per gioco (tanto era ‘gratis’), ma ben consapevole di quanto questi concorsi (prosa/poesia/fumetti...) siano solo una palestra per gli alunni di una certa ‘scuola’. Alle modalità del processo di selezione poi credo poco, soprattutto valutando quanto ‘è passato’, alcuni componimenti buoni e interessanti ma altri… ok il ‘de gustibus’ però… insomma una riconferma.
Non sono qui a difendere l’indifendibile. Il sito non sforna autori provetti, non scopre talenti, è un cimitero di copertine (alcune originali e belle, alcune ‘scopiazzate’, altre create con stampi stile biscottificio). È un mercato d’illusioni di cui l’unico beneficiario reale è l’erogatore del ‘servizio stamperia’. Però c’è da notare che illude solo chi si lascia illudere, perché è ben chiaro che ilmiolibro.it di ‘promozione’ non ne fa. Pure la pubblicità a pagamento è un’ennesima illusione: chi diavolo vuoi che la prenda in considerazione? Ti farà sentire figo per una settimana, ma poi? più depresso di prima.
Soddisfatta ? al 60%. Considero il sito per quello che vale, e non mi aspetto altro. Persino la community virtuale non è male. Non tutti gli iscritti sono egoisti presuntuosi a caccia di (improbabile) fama che appena vedono un nuovo iscritto gli inviano un messaggio di default (‘ciao, benvenuto, ti va di leggere il mio libro e di regalarmi un commento?’), mi sono imbattuta anche in persone carine che come me osservano con distacco e ironia le dinamiche dell’utente medio e del sito, persone con cui ho allacciato una mini-corrispondenza a distanza. Insegnanti che si dilettano a scrivere nel loro tempo libero o giornalisti che pubblicano un gioiellino degno di Einaudi (per citare uno degli ‘editori seri’ che rispetto di più). Tra gli utenti che hanno recensito o commentato i miei libri (e che poi ho inserito tra i miei ‘amici’) ce ne sono alcuni che mi hanno sorpreso. Chiaramente in un sito del genere ‘commenti e recensioni’ sono per lo più un gioco di riflessi e spesso mera richiesta di uno ‘scambio di favore’ (cui io mi sottraggo per principio) per ottenere quella visibilità che il sito ‘consiglia’, ma a volte sono interessanti punti di vista sinceri o paiono aver colto davvero qualcosa di quello che volevo trasmettere e, allora, ok, mi sorprendono.
Sono d’accordo, il sito non è il massimo, sicuramente ogni anno ne nasce almeno uno nuovo che offre servizi analoghi e ci sarà di meglio. Però la spocchia di chi considera gli utenti di un sito di POD come dei ‘pezzenti’ di una pseudo-letteratura di ‘fascia di mercato N/A’ i.e. neppure classificabile a lato di quella alta e dotta, e poi magari promuove, o contribuisce a promuovere, ben altre immondizie, proprio non va giù…
Ma che ne sai tu di ‘critica letteraria’ e di come si scelgono/valutano libri e autori? Tu, allocca, narcisa, ignorante, pigra e, comunque, incapace!
No, non ci sto a essere definita un’allocca; né tantomeno sono un’arrogante cacciatrice di fama pronta a tutto pur di far carriera sugli scaffali di una libreria di remainders. Se avessi mirato alla fama avrei investito (anni fa) in un bravo chirurgo plastico invece che in una ‘inutile’ educazione che non ha fatto altro che aprirmi bene gli occhi sulla realtà del vivere, il che per chi non accetta di sopravvivere equivale all’inferno.
Dissento sull’affermazione che gli utenti di ilmiolibro.it siano tutti ignoranti sprovveduti.
Io ho una biblioteca immensa (ho iniziato a leggere a 5 anni, a 9 anni avevo già letto I Promessi Sposi, l’Iliade e l’Odissea, a 13 Baudelaire, Dante, Borges, Mann, molti dialoghi di Platone e quasi tutto Shakespeare, per citarne solo alcuni) e che spaziano dalla letteratura (greca / latina / francese / anglosassone / tedesca / russa / giapponese / spagnola / latino-americana / norvegese / portoghese / indiana / africana...) alla filosofia, dalla storia dell’arte all’economia, dalla mineralogia alla medicina. Conosco altri utenti che sono insegnanti, giornalisti, che di libri ‘dotti’ ne leggono o hanno letti un bel po’ e vista la loro età forse anche molti di più dell’autore/editor del post che con la sua supponenza ha scatenato la mia indignazione.
Ho letto altri testi su quel sito, l’ho fatto per curiosità, per farmi un’idea di quello che altri scrivono o amano leggere. Alcuni mi hanno commosso (sogni infantili che mantenevano la goffaggine zoppicante dei temi di scuola elementare), altri mi sono piaciuti al punto che li ho acquistati, altri ancora (pur scritti ‘bene’) mi hanno fatto indignare e gridare ‘plagio’ (di altri racconti/libri o sceneggiature di film più o meno famosi).
Persino io sono stata plagiata (l’ho scoperto per caso), so che non si tratta di ‘fonti comuni’ perché il passo in questione era mio al 100%, originalissimo e sofferto, e dato che sapevo che il mio libro era stato letto, o almeno sfogliato, dalla persona in questione era abbastanza ovvio le fosse caduto l’occhio.
Poi mi viene da ridere al pensiero che, magari, ci sono anche autori affermati e colla puzzetta sotto il naso nei confronti del POD, che, a caccia d’idee e nuovi spunti, se li leggono pure, di soppiatto, questi ‘pezzenti che si auto-pubblicano’ e… tanto chi si accorge del plagio?
Ok ‘leggere’, ma del ‘valore’ di un libro, tu che ne sai?
Vero, io sono un emerito ‘nessuno’, ma che in un percorso di studi eclettico e vario ha ‘incontrato’ anche la critica letteraria e linguistica; un’appassionata di parole e musica; una ex divoratrice di carta che non solo ha letto molti, se non tutti, dei ‘classici che contano’, ma che ad es. ha ‘scoperto’ e si è innamorata dello stile di Ian McEwan in una piccola libreria di Londra anni prima che diventasse ‘famoso’ in Italia; che ama Faulkner e Poe altrettanto quanto Stendhal e Rimbaud, Shakespeare quanto Dante, Alfieri quanto Ibsen, McCarthy quanto Woolf, Mishima quanto Yourcenar, Seneca quanto Bonhoeffer; che ancora non ha trovato un autore italiano ‘recente’ che sia all’altezza (contenuto e forma) di Calvino, Buzzati e Pirandello (ok, de gustibus), ma tanti americani che la fanno respirare di sollievo; che appena può legge in originale; che ha scritto articoli che hanno firmato altri; che non è affatto presuntuosa, ma che di fronte ai superbi tira fuori le unghie e, ok, anche le qualifiche.
Non sparate sul pianista ma diffidate della supponenza, e del presupporre a prescindere
La mia autodifesa è stata scatenata dal J’accuse dell’appunto/post di un editor/autore, ma è uno ‘sfogo’ un po’ più ampio che esula dallo specifico e vuole riflettere su certi ‘critici’ che si parlano addosso e auto-incensano, poi magari, se gli piazzassero sotto gli occhi un brano in originale, senza titolo e fuori contesto, non saprebbero distinguere Carver da Capote, Yourcenar da Sagan, Baudelaire da Rimbaud, Borges da García Márquez… un po’ come certi assaggi alla cieca: è brunello o valpolicella? spuma o gazzosa?... o finirebbero per etichettare come ‘originale’ il chiaro ‘falso’ di un non-autore ;)
Invito a leggere anche gli sconosciuti (che scrivono senza protettori e ‘propellenti’) non per scoprire chissà quale classico snobbato, ma per la gioia di trovare – ok, nascosto tra migliaia di plagiari, tessitori di pastiches e sgrammaticati – qualcosa di originale che (chissà) magari ci piace perché è ‘in sintonia’ con noi e ci comunica qualcosa di più di tanti libri noiosi e banali nascosti dietro copertine ‘firmate’ che ci vengono presentati come ‘imperdibili’ e che una volta terminati quasi non ce li ricordiamo.
Ricerca/scelta difficile? Neppure tanto; basta un titolo che ispira, una scorsa veloce, leggere qualche frase a caso… Io ho trovato così molti dei libri che più ho amato, prima in libreria e ora online… anche di autori che famosi lo sono diventati solo molto tempo dopo, che quando li avevo ‘raccolti dal fondo dello scaffale’ erano ancora ‘nessuno’, almeno in Italia.
Non è meglio ‘assaggiare’ e poi decidere, secondo il proprio gusto, che affidarsi a quanto viene presentato ad arte da recensioni non propriamente ‘indipendenti’? Parere personale, appunto: a me piace poter scegliere quello che ‘piace a me’.
post scriptum
Non riporto il link ai posts che ho letto e che hanno suscitato la mia ‘risentita’ reazione perché non voglio fare ‘pubblicità’ ai loro ‘autori’, basta fare una breve ricerca su Internet e credo che si possano trovare facilmente, insieme a molti altri simili: invito a non fermarsi alla lettura dei posts, ma a leggere anche i commenti (pro e contro).
La discussione sul POD/self-publishing ecc. è comunque vivace e interessante; anche se chi si schiera per partito preso – IMHO – non dimostra l’intelligenza che poi dice di non ritrovare in chi neppure ‘si degna’ di leggere.



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